22 Mar Competenze sociologiche nel Coaching: la lettura delle Emozioni
Come coach e trainer di Intelligenza Emotiva, accolgo ogni giorno vissuti di coachee e corsisti, raccontando loro come ogni emozione – piacevole o spiacevole che sia – a livello neuroscientifico non sia altro che un’informazione che ci arriva rispetto a ciò che sta accadendo dentro e fuori di noi.
Ciascuna di esse è importante, poiché utile a rendere il nostro processo decisionale consapevole, intenzionale e strategico, nonché a raggiungere i nostri obiettivi e migliorare le nostre performance in tutti i campi.
Tuttavia, se pensiamo che mettere a sistema queste informazioni e farne buon uso sia una questione meramente introspettiva, rischiamo di vedere le cose in maniera alquanto riduttiva.
Le emozioni, da un punto di vista sociale e culturale, non sono affatto neutre.
Ogni società, ma anche famiglia o qualsiasi altra forma di aggregazione sociale, definisce:
- quali emozioni sono accettate
- quali etichette linguistiche utilizzare per descriverle
- le modalità di manifestazione delle stesse
- plasma la capacità dei suoi membri di riconoscerle, interpretarle e viverle
Possiamo affermare che le emozioni sono una potentissima chiave di lettura del rapporto tra individuo e contesto sociale, a qualsiasi livello.
Di quali gradi di libertà emozionale gode l’individuo? Chi o cosa determina cosa sia legittimo e lecito provare e manifestare? Con quale intensità, durata e in quali contesti?
Sfogliando i testi di sociologia delle emozioni, un esempio frequente è quello delle celebrazioni funebri: nelle società occidentali contemporanee è “buona norma” manifestare tristezza, ma in maniera composta e per un tempo coerente con la durata dell’evento.
Un sorriso legato ad un’emozione piacevole (magari evocata da un ricordo felice) sarebbe probabilmente giudicato sconveniente. In altre culture e contesti sociali, invece, potrebbe accadere l’esatto contrario.
Se è vero che esistono alcune emozioni primarie (come la paura, la rabbia, la tristezza o la gioia), universalmente riconosciute sia a livello del sentire che cognitivo, è altrettanto vero che non ci sentiamo tutti parimenti liberi di manifestarle e accoglierle.
Grande differenza fa come le abbiamo introiettate e apprese socialmente, per esempio in base al genere, allo status sociale, all’età, all’etnia di appartenenza.
Uomini e donne si danno il permesso di manifestare la tristezza allo stesso modo, magari piangendo in pubblico? Ci si aspetta che un adulto manifesti la gioia con la stessa intensità di un bambino? La rabbia è socialmente accettata da chiunque allo stesso modo? È appropriato per tutti i ruoli professionali manifestare la paura?
Nella mia esperienza di coach e sociologa, quanto spesso ho ascoltato che un uomo deve tenere le emozioni fuori dalla porta (ma può manifestare rabbia), mentre è “normale” che una donna sia “emotiva” (con una accezione di senso comune prevalentemente negativa).
Nei contesti organizzativi, la sociologia contemporanea parla di “lavoro emozionale” per indicare ogni comportamento, pensiero e autoregolazione emotiva che l’individuo mette in atto per conformarsi a quanto richiesto dal proprio contesto lavorativo, spesso obbligandolo a vestire una maschera professionale che lo allontana dalla propria autenticità, non senza costi emotivi personali.
Alcuni esempi più eclatanti possono essere quelli dei contesti militari, in cui le regole del sentire e del manifestare sono disciplinate in maniera molto rigida, ma ugualmente si può dire (pur con obiettivi molto diversi) per gli assistenti di volo e coloro che si occupano di attività di front office o cura del cliente, o per ambienti connotati da estrema formalità e prestigio sociale come gli istituti bancari.
Un’ulteriore riflessione meritano tutte quelle emozioni di inequivocabile matrice sociale, ovvero definite e normate dalla società stessa attraverso le interazioni tra individui e sistema nel quale sono inseriti. Esse fungono da vero e proprio collante sociale e sono spiacevoli per chi le prova proprio per assolvere alla loro funzione regolativa.
Senso di colpa, imbarazzo o vergogna, umiliazione contribuiscono a mantenere un grado soddisfacente di conformismo e integrità sociale e ad arginare eventuali fenomeni di devianza emozionale, pena il disagio di fronte alla propria comunità sino ad una eventuale estromissione.
In un continuum tra libertà e vincolo sociale (forse entrambi mai pienamente realizzabili), quanto mi riconosco nella definizione di ciò che è emozionalmente deviante da ciò che non lo è?
E quanto l’adesione alla norma socio-emozionale mi spinge alla devianza da me stessa/o, quando non mi permette di navigare tutto ciò che sento? Ci sono circostanze in cui mi concedo di abbassare la maschera sociale e se sì, quali sono? Cosa lo rende possibile?
Ogni cambiamento non nasce forse dalla messa in discussione dello status quo a partire dall’energia di un’emozione che ci concediamo di provare, da una fatica emotiva a stare in un ruolo in cui non ci riconosciamo, da una presa di consapevolezza di un condizionamento esterno che non risuona con i nostri valori o bisogni?
Queste considerazioni di respiro sociologico si rendono indispensabili nella cassetta degli attrezzi del coach: i pattern (o sentieri emozionali) disfunzionali per il coachee, sono socialmente ereditati? Quanto ne è consapevole? E in questo caso, ne ha ancora (o realmente) bisogno e per soddisfare cosa? Qual è il peso delle aspettative sociali sulle sue scelte?
Io stessa, nel mio ruolo di coach, a quali pattern socialmente ereditati devo prestare attenzione? Ci sono emozioni con cui sono più empatica, accogliente e tollerante ed altre meno? Esercito l’ascolto attivo in maniera valutativa ma non giudicante?
Di fatto, in quanto interazione sociale, la stessa relazione coach-coachee potrebbe rischiare di alimentare dinamiche socioemotive controproducenti per gli obiettivi del cliente e professionalmente non etiche.
In questo senso, la co-costruzione della relazione di coaching e della narrazione che ne emerge, richiede da parte del coach un esercizio dell’empatia volto all’apertura verso qualsiasi diversità, un atto di vero e proprio anticonformismo sociale.
Da parte del coachee, invece, una genuina tensione all’autenticità come continuo processo di scoperta di sé, oltre i condizionamenti sociali e la cultura emotiva nel quale è inserito.
A cura di:
Ilaria Iseppato