Chi di voi ha visto il film “Don’t look up” ricorderà certamente Peter Isherwell e il suo progetto Bash, il cui principale obiettivo era intervenire per eliminare ogni manifestazione di tristezza rilevata dall’apparecchio elettronico, offrendo al suo detentore o alla sua detentrice immagini e stimoli che evocassero istantaneamente emozioni piacevoli “correttive”, possibilmente di gioia.
Lo spunto offerto dalla visione di uno spezzone di questo film, decisamente forte e impattante, ci ha sbattuto in faccia una realtà dove i protagonisti sono privati della possibilità di esprimere autenticità, navigando e legittimando tutto il caleidoscopio delle emozioni, in un contesto in cui non c’è co-costruzione delle relazioni ma mera interazione persona-macchina.
In questo scenario, la Gioia acquisiva almeno una triplice valenza: gioia come obiettivo di vita e risultato a cui tendere (ma come si realizza, concretamente?), come obbligo sociale (non si accettano emozioni spiacevoli e occorre ricorrere a supporti artificiali se non riusciamo a provarla o evocarla nel nostro quotidiano) e, solo marginalmente, come emozione.
L’esito, qui intenzionalmente marcato, è proprio la perdita di vista della vera essenza della Gioia, emozione primaria e, in quanto tale, foriera di energia e informazioni preziose per chi la prova, al pari di qualsiasi altra emozione.
Neuroscientificamente, le emozioni hanno pari dignità e valore, sono vettori di informazioni la cui concretezza si manifesta a livello corporeo. Come qualsiasi altra emozione, la gioia mi racconta come percepisco ciò che mi sta accadendo: ho raggiunto un risultato a cui tenevo, sto ottenendo o mantenendo qualcosa di importante per me, forse anche oltre le mie stesse aspettative.
L’elemento di saggezza della Gioia è, al pari della Tristezza, il focus su cosa è importante per me che, nel caso della gioia ho raggiunto, mentre nel caso opposto della tristezza ho (o ritengo di aver) perso.
Dal punto di vista sociale, le cose vanno diversamente. Come già esplorato in un precedente articolo (Competenze sociologiche nel coaching: la lettura delle emozioni), ogni società, famiglia o gruppo sociale norma quali emozioni è lecito provare, in che misura, tempi e contesti manifestarle. E condiziona fortemente la nostra stessa capacità di riconoscerle, dando loro un nome preciso.
Nell’esempio da cui siamo partiti, la gioia non solo è legittimata, ma è pretesa, ostentata, e ad essa è riconosciuto un rango pregiato a differenza di altre emozioni giudicate scomode (tristezza, solitudine, paura o rabbia, per esempio).
Tali differenti prospettive ci invitano, come coach, ad esplorare in prima persona con maggiore attenzione questa emozione – anche attraverso momenti di pratica riflessiva e di allenamento dell’intelligenza emotiva – per poi fare altrettanto con i nostri coachee:
Tante domande da porci e da porre, per non dare nulla per scontato, per riconoscere e navigare le emozioni, esplorare schemi, mantenerci in ascolto di noi stessi e degli altri, co-costruire processi di cambiamento su solide consapevolezze. Ricordando che la Gioia, come altre emozioni, è fonte di energia motrice che ci orienta verso ciò che è importante per noi, non una destinazione in sé che ci veicola tutti verso un unico obiettivo.
Autrice: Ilaria Iseppato, PCC ICF
Volontaria Area Comunicazione 2022